Ragioni di un maiolicato

Ragioni di un maiolicato

di Mario Pagliaro

 

Molto più delle regole possono le ragioni, forse, ancora oltre, la testimonianza.

In un panorama edilizio e architettonico sinceramente deprimente in cui ci si affanna ad imporre regole che siano accuratamente “ingannabili” o almeno incontrollabili, in cui c’è chi tenta di imporre e soprattutto riconoscere la qualità “per legge”, è sempre più difficile comprendere anche l’artigianato.

Molti vorrebbero segnalarlo usando le maiuscole, altri, in cerca di prebende istituzionali, preferiscono accompagnarlo all’aggettivo “artistico”. Per chi come me segue l’anti-retorica zeviana e per gli amici che ci lavorano, più per il piacere di sostenere una famiglia che per il gusto di essere folcloristici, l’artigianato resta quella capacità di fare mestiere a partire dalla cultura del fare, senza altri riferimenti che non siano il legittimo ritorno economico e la consapevolezza di essere parte di una potenzialità espressiva.

Per questo “usare” l’artigianato non è giustificabile con la coltivazione di una memoria o la mummificazione di una nostalgia, ma nell’essenza vera del fare mestiere: interpretare le necessità funzionali contemporanee, attraverso la qualità. Qualità dei materiali, delle tecniche, delle rifiniture, delle storie che nascono attorno ad un manufatto e che, insieme, costruiscono un volume di valori che giustamente chiedono un prezzo diverso dalle “utilità standardizzate” perché, in cambio, restituiscono uno spazio ad uso del vero e non del verosimile.

 

Per queste ragioni, grazie agli sforzi di pionieri come Ugo La Pietra e pochi altri designer che hanno deciso di puntare sulla capacità di fare, oltre che su quella di esprimere, di definire virtù la possibilità di “occuparsi di cose marginali”, la cultura del fare ha iniziato a sposarsi con quella del progetto. Ovvero, ri-unendo gli artigiani con i designer, l’artigianato di qualità ha iniziato ad essere anche nella pratica costruttiva alternativa, funzionale e qualificante, alla retorica dello standard, più inerzia delle incapacità, oramai, che filosofia per la diffusione del benessere.

In particolari aspetti del fare architettura, l’artigianato di qualità si propone come la possibilità di creare espressività originale, organica all’insieme, comunque consapevole di essere innanzitutto espressione di mestiere, quindi, funzionale. In particolare, nella pratica del restauro architettonico, altra disciplina che smaschera qualunque tentativo di finto impegno, questo artigianato trova una naturale collocazione.

Come è successo per il restauro della chiesa di San Felice da Cantalice a Capriglia: l’approccio alla pratica di una disciplina che ha per obiettivo la conservazione della materia e la trasmissione dei valori, non può non completare la comprensione (prendere con sé) delle ragioni statiche, funzionali, storiche, sociali alla base delle originali scelte progettuali, con la testimonianza delle rappresentazioni simboliche e sociali originarie e contemporanee e su quelle, solo su quelle, agire. Azioni che non siano mimesi, copia, ripetizioni formali, ma indagini e proposte sulla essenza delle cose.

La sostituzione, con un insieme di maiolica e breccia irpina, di un’anonima pavimentazione IN GRANIGLIATO di una piccola chiesa 700’ntesca, di un piccolo comune in una minima provincia, ha realizzato chiaramente questo tipo di volontà.

Segnare il percorso fisico che dall’ingresso del tempio porta lo sguardo, il pensiero e le coscienze dei credenti verso la rappresentazione terrena dell’Obiettivo Unico, avrebbe potuto, comunque, prestarsi a mille interpretazioni nostalgiche, ”stilistiche”, economiche, retoriche, specie in considerazione del fatto che la committenza nasceva da una precisa richiesta popolare. L’unione della cultura del fare con quella del progetto, invece, ha stabilito quel percorso di coerenza che evita le improvvisazioni.

 

(CONTRIBUTI ALL’ANALISI)

L’uso della maiolica, nell’architettura storica in Irpinia, non è cosa comune, soprattutto, non autoctona. San Francesco a Folloni a Montella e S. Maria delle Grazie a Cassano Irpino non sono opera dei “ruagnari” arianesi o calitrani. Questi, infatti, erano maggiormente impegnati a sbarcare il lunario con ironici esempi di arte applicata al quotidiano e venduti al mercato settimanale o lungo “la via ‘re Foggia”.

Quanto di ceramica “architettonica” esiste in Irpinia, lo si deve maggiormente all’anima migrante dei maiolicari vietresi e napoletani ed alla loro necessità di ricercare mercati meno saturi e fiscalmente assistiti, dove fosse redditizio dare testimonianza della loro maestria. Maestria che si divideva a metà tra chi formava e cuoceva le terrecotte ed i decoratori. Questi ultimi, ad una spanna sociale più su, ripetevano con i ritmi ed i modi che erano stati loro insegnati, forme e colori che non erano frutto della loro invenzione, più che altro di una “storicità della fantasia” iniziata un giorno ed in un luogo, più o meno vicini, con la diffusione di un segno che uno o più artisti della stessa scuola avevano maturato.

Conseguenza furono le tante varianti di volute astratte e fiori stilizzati che nell’arco dei secoli si sono ripetuti nei vari cantieri dell’Italia meridionale.

Essendo frutto di esperienza artigiana più che di intenzione artistica, quindi, i tanti pavimenti maiolicati che ancora possiamo ammirare (quando non sono ignoranti recenti copie di originali volutamente sostituiti o invasivamente integrati) difficilmente trovano valore nel singolo pezzo, nel disegno di dettaglio. Il loro respiro, infatti, era più attento a partecipare all’invaso spaziale in cui erano calati, ricercando maggiormente la resa ottica d’insieme, più che il racconto del dettaglio.

Una scelta dettata dalle logiche commerciali che subordinavano tutto il processo produttivo, dalla scelta delle cave d’argilla, alla fabbricazione del “biscotto”, all’applicazione degli smalti ed alla cottura del pezzo, l’attenzione era quella di riuscire a ottimizzare gli aspetti produttivi e la necessità di manodopera con il prezzo finale, comunque sottoposto a grande concorrenza.

I cantieri illuminati, come quello di Santa Chiara a Napoli, dove l’obiettivo del committente fosse la realizzazione di un prodotto unico e, quindi, la preoccupazione maggiore quella di affidarsi ad architetti, artisti e maestranze di oggettivo valore e capacità creativa, hanno sempre rappresentato degli unicum. La stragrande maggioranza dei cantieri minori, invece, era spesso occasione di lavoro strettamente gestita dal parroco di turno che arrogava a sé la funzione di art director dei lavori. Sicuro che la gestione della “borsa” lo rendesse capace anche di poter gestire l’intero ciclo dei lavori: dalle scelte progettuali, a quelle artistiche, alla individuazione della manovalanza. Il risultato era spesso l’uso di linguaggi, tecniche, materiali e maestranze già conosciuti e dai quali si richiedeva l’adozione di scelte già testate in altri cantieri e delle quali, quindi, già si potesse immaginare l’effetto finale. Nulla di tanto diverso da quanto non succeda ancora oggi (sic).

Era, quindi, logica conseguenza la ripetizione di formati standardizzati, segni decorativi ripetibili e ripetuti, l’uso di maestranze poco qualificate, ma “iperspecializzate”. Infatti, come ancora accade oggi, nelle Gardaland dell’artigianato tipico, da Vietri a Faenza, l’organizzazione produttiva di un elemento decorato vede lavorare, su un unico pezzo, decine di decoratori che applicano ognuno un singolo, specifico decoro. L’insieme del loro lavoro crea, in pochissimi minuti, un pezzo completo pronto per la cottura. Accade ed è accaduto che un ceramista lavori per tutta la vita, disegnando solo e sempre lo stesso tralcio di un intero fiore stilizzato.

 

(ANALISI)

Per questo, il riferimento culturale, per il maiolicato di San Felice, non poteva essere semplicemente la “Tradizione ceramistica”, quindi, la ripetizione acritica di quelle giravolte stilistiche che oramai riempiono i bagni “padronali” di una borghesia arricchita, ma incolta e che soprattutto mai avrebbero potuto, solo per il fatto di essere Tradizione, creare quel segno di dignità, devozione, rispetto, affetto, religiosità sacra e pagana che era nella sostanza della richiesta della comunità credente di San Felice di Capriglia.

Il senso verso il quale si è indirizzato lo sforzo dei due ceramisti Nello Antonio Valentino e Aniello Rega, nell’interpretare lo schema di percorso suggerito da Luca Battista, è stato quello di un percorso a ritroso, alla ricerca dell’essenza. Le due anime della ditta Bhumi di Forino, hanno ricercato, come nella scrittura di un romanzo storico, non l’uso di frasi fatte con cui assemblare discorsi già ascoltati, ma il senso dei fonemi dell’antico linguaggio della ceramica campana.

Il linguaggio decorativo della tradizione ceramistica è desunto dall’imitazione della natura. Attraverso la stilizzazione di elementi floreali si è giunti nel tempo e nella re-interpretazione personale degli artigiani, ad una libreria di simboli e segni caratteristici e distinguibili. La Natura non è mai stata riprodotta “tal e quale”, a meno che non fosse finalizzata ad un racconto didascalico, è sempre stata interpretata “per via di levare” alla ricerca dell’essenza del segno grafico da apporre sulla terracotta. Lo studio dei nostri ceramisti, quindi, ha ripercorso lo stesso meccanismo di sintesi e ri-elaborazione, arrivando ad individuare poche forme capaci, però, di costruire ricordo. Il lavoro di ricerca è stato quello di isolarle non in una realizzazione bidimensionale, ma di volume, così che ogni fonema acquistasse dignità di significato e venisse visto in una nuova realtà, non più solo partecipativa, ma anche protagonista.

A differenza di quanto era prassi del passato, a Capriglia, questa volta c’era un architetto, fini ceramisti ed una comunità che voleva costruire dignità trasmettibile nel tempo. In questo caso, quindi, la ceramica, l’artigianato non poteva essere più considerato mestiere al servizio dell’immagine, ma occasione di costruzione della qualità. Ovvero di quei valori che porteranno nel tempo a venire a ricordare questo momento di ri-creazione vissuto dalla piccola Chiesetta di San Felice da Cantalice.

Tanto più che tutto l’intervento di restauro compiuto sull’esistente è già stato ampiamente rispettoso delle preesistenze e condotto con progettata umiltà. Sul pavimento di questo presidio ‘700ntesco della fede, che mai aveva posseduto caratteri di dignità formale o materica, si poteva e doveva intervenire costruendo la possibilità di creazione e non solo conservazione, di un ricordo. Un ricordo del passaggio in quel luogo di una intera generazione del 2000, che avrà anche rinnovato le forme e conservato la fede della tradizione cristiana, ma vivendo il proprio tempo ed era, quindi, giusto che segnasse anche fisicamente la propria presenza. In questa funzione l’artigianato unito al design ha potuto essere sintesi di saperi stratificati e linguaggi contemporanei.

 

Il risultato del maiolicato di San Felice, quindi, non è la riproduzione inutilmente romantica di una mattonella decorata e posta al fianco di altre, ma una operazione artigiana molto più elaborata, di “pezzatura” e decorazione finalizzata alla costruzione di dettagli che raccontino la tradizione rappresentando un’alta capacità contemporanea di “fare artigianato”.

Ogni singolo modulo del maiolicato di San Felice si compone di 13 distinti pezzi, prodotti con la tecnica della lastratura e successivo intaglio, di argille rosse provenienti da cave fiorentine. La tecnica usata comporta una considerazione “scientifica” del fenomeno del ritiro dovuto alla perdita progressiva di umidità d’impasto, la differenza tra fresco e asciutto può arrivare al 10% del volume originario. Una variazione notevole che necessita essere dosata specie quando, come a San Felice, si vuole produrre pezzi separati da unire in schemi a mosaico.

I colori sono quelli di sempre, non della Tradizione, ma della “ragione”. Sono gli stessi importati dagli arabi e che ancora caratterizzano la ceramica moderna in tante sue declinazioni meridionali, semplicemente perché ricavati da ossidi e minerali più facilmente ritrovabili in natura. Ad una base di bianco prodotta con caolino aggiunto a “fritte”, si è unito il verde ramina dell’ossido di rame, gli arancioni dell’ossido di ferro, il blu dell’ossido di cobalto e per il contorno, il classico nero brunito dell’ossido di manganese.

Il risultato, che questo approccio virtuoso all’artigianato ha prodotto, quindi, credo possa essere additato come esempio a ripetersi di un metodo progettuale fatto non di delega superficiale all’artigiano, non di sterile abbandono al “già visto”, o di ignorante violenza della regioni tecniche e tettoniche, ma di giusta compartecipazione tra cultura del progetto e cultura del fare ri-unite nella creazione della “messa in scena di una funzione”.

 

tratto da:
Il restauro della Chiesa di San Felice da Cantalice, Luca Battista (a cura di), A
r.Te.Ti.Ca. 2008