15 Mag Le trafile in Tasca
foto di Enza Iadevaia
Troppo spesso, l’azione del produrre, tanto nel design quanto nell’architettura, viene confusa con una pretesa necessità di coinvolgimento artistico. E’ una necessità che viene, solitamente, in aiuto alla incapacità/impossibilità di definire, ritrovare, funzionalmente o tecnologicamente, la comunione di un nuovo prodotto con gli archetipi istituzionalizzati. Una mental habit che da tempo, oramai, ha compreso nella sua banalità anche l’artigianato. Da quando, la sua comunicazione pubblica è diventato territorio di romantici bricoleur, acculturati “fricchettoni” o “statali” in vena di riconversioni, è sempre più facile sentire definito quale caratteristica principe del “fatto a mano”, la vena artistica che sottenderebbe il processo produttivo. Premiando, di fatto, l’aggiunta gratuita di liberi orpelli su libere forme, attraverso libere scorciatoie tecnologiche. Tralasciando il ragionamento sui perché e sul come.
Se esiste, in ceramica, un riferimento dal quale è possibile suggere il metodo del “come fare cosa”, risiede nell’opera di Alessio Tasca da Nove.
Nasce, vive e lavora, dal 1929, in quello che è il territorio ceramistico più a nord d’italia: esattamente al confine tra i paesi di Nove e Bassano del Grappa, praticamente all’interno della “Antibon”, come dire “la ceramica” in quelle contrade. Alessio Tasca si forma in una realtà grandemente artigiana, per formazione e cultura di vita, ne ha respirato la concretezza e la capacità di sintesi fin dai primo passi, e non ha mai perso la capacità di renderle organiche alla propria sensibilità espressiva. Così, sia come docente (ha insegnato dal 1948 al ’79 all’istituto d’Arte di Nove), che in qualità di anima della “Tasca Artigiani Ceramisti”, la sua ricerca è sempre stata orientata su due fronti: la scultura e l’arte applicata. Come dire: “poesia” e “prosa ispirata”.
In questo senso, anche quando la ricerca era orientata alla ispirazione artistica Tasca, ha sempre cercato attraverso la conoscenza tecnica e le interpretazioni tecnologiche, di orientare il suo lavoro verso un carattere di sperimentazione sui materiali e sulle tecniche di produzione. L’azione principale attraverso la quale diventa punto fermo della riflessione sugli equilibri tra artigianato, arte e e design, è lo sdoganamento della trafila da tecnica di complemento e la sua aggiunta tra gli strumenti base del ceramista, il tornio e lo stampo.
Su questa strada compirà applicazioni innovative, “nel senso di una sterzata della manualità produttiva tradizionalmente connessa alla tecnicità d’una prospettiva da disegno industrial”.
Di fatto, Tasca ha prodotto la prima trafila monostrutturale applicata, in prospettiva, alla produzione di oggettistica. Da questa esperienza, poi, ha continuato aumentando le dimensioni dello strumento e le intenzioni artistiche, fino ad arrivare alla trafila del suo studio di Rivarotta, alta sei metri con un diametro di sessanta centimetri. Con questa è arrivato alla realizzazione di quelle che sono, oramai, le sue immagini di riferimento: le trafilature polistrutturali, reticolari, sferiche.
Il grande passo verso il design, però, Tasca lo ha fatto con una semplice trafila, degasatrice, orizzontale, ed un filo di acciaio aggiungendo, alla sapienza ceramistica, una nuova tecnica di modellato.
Il suo primo oggetto trafilato, è ancora legato all’immagine dei laterizi estrusi. Poco più piccolo di un mattone, di cui conserva la struttura ortogonale, tolta o forata a seconda delle necessità funzionali da attribuire ad un complemento per scrivania, smaltato di bianco maiolica.
In tutta la storia del “fatto a mano”, a differenza di quanto troppo spesso ricorre nel folclore accademico, non è mai esistita una tecnica artigianale intenzionalmente difficile, laboriosa, inutilmente dispendiosa di mezzi, tempo o materiale. L’intero processo produttivo artigianale è sempre stato rivolto alla ottimizzazione dei tempi e dei materiali della produzione. Anche quando ci si imbatte in vere e proprie acrobazie della manualità, queste, comunque, sono fasi già sfrondate del superfluo, già organizzate per dare la massima resa con il minor dispendio di mezzi. Proprio perché l’artigianato non ha mai voluto essere arte, al massimo trarne ispirazione, sempre con l’obiettivo di poter concretamente restituire al mercato l’oggetto di tanti sforzi.
Infatti, la maturazione della ricerca di Tasca passa per gli “Arcovasi”, nel 1967, trafile a sezione rettangolare, semplicemente curvati, con raggio molto largo, appoggiati o sospesi con fili passanti. L’ottenimento di questi profili è forse la più elementare delle possibilità di un trafilato. Una matrice base, un estruso lungo a piacere, posati sul piano di lavoro e curvato senza sagoma, senza dima. Perché né sagoma o dima occorono per migliorarne la funzione o l’immagine. La ricerca di una immediatezza che comporta anche la rinuncia al colore.
Nell’approfondimento della sua intuizione, Tasca, è stato autonomo contemporaneo di Nino Caruso, insieme calati in quella “storicità della fantasia” (per dirla con Edoardo Persico) che li ha visti, negli anni ’60, svolgere analoghe ma diverse esperienze. Caruso, artista ceramista, formatosi nei circoli romani con Mazzacurati e Guttuso, negli anni in cui Tasca fondava la sua impresa conduceva, da direttore artistico di importanti industrie della ceramica, il tentativo di collocare, attraverso la tecnica della trafila, la ceramica in architettura. Ricercandone, però, un ruolo nuovo che non fosse aggiunta postuma, ma presenza strutturale, significante di spazi vissuti, elemento costruttivo. E vi riuscì.
Tasca, con la trafila, ha fatto altro. Ha steso tutti i presupposti perchè l’artigianato, da insieme di tecniche elementari o complesse, al servizio della nostalgia, si emancipasse in design. Lo ha fatto senza concettuali ricerche di epurazione formale ma, esclusivamente, rivedendo i processi produttivi, analizzandone le potenzialità e re-interpretando i modi del fare. Tutto esclusivamente attraverso la trafila.
Prima di lui, bisogna registrare anche il tentativo di Roberto Mango, degli anni ’50, di ricerca di una sintesi tra artigianato e design della ceramica attraverso la trafila. Il designer napoletano, però, vide in questa tecnica solo la possibilità di rendere più veloce un processo produttivo, destinato ad operatori che non possedevano più le capacità manuali del periodo pre-bellico. In più, dovette arrendersi all’evidenza di una intuizione corretta nel metodo ma irrealizzabile nella pratica, per la totale diversità di risultati tra la convenienza tecnica ed economica progettata e quella effettivamente raggiungibile. Fattore principale da cui derivò la conclusione dell’esperienza.
La ricerca di Tasca, invece, parte da presupposti troppo organici alla produzione per non poterne essere positivamente influenzata. La sua eterna ricerca consiste nella necessità di modellare l’argilla, anche in forme articolate, ma con la massima rapidità e sempliità dei gesti.
Alla naturale sinuosità degli Arcovasi, nello stesso anno, invece, segue la sperimentazione delle “Chiocciole”. Uguale profilo rettangolare, questa volta, rigidamente piegato a 90° su se stesso a formare quadrati o rettangoli allungati, non conclusi. Un risultato sicuramente meno immediato. A differenza degli Arcovasi, l’estruso deve essere tagliato, giuntato, sostenuto tutto, quindi, con un gesto meno naturale, più elaborato.
Per questo il percorso ritorna sulla figura continua, la elaborazione del risultato finale attraverso la naturalezza del gesto. Arriva così, sempre nel ’67, il “Cornovaso”. Il panetto di argilla, pressato dal pistone, esce attraverso una flangia triangolare e, semplicemente accompagnato da due mani, che assecondando la naturale rotazione che le fibre estruse assumerebbero in virtù delle tensioni interne, si avvolge su se stesso in una spirale interrotta. Il Cornovaso “è oggetto in cui le regole del design coincidono perfettamente con lo spontaneo movimento dell’argilla”. Nel 1972, viene acquistato dal Victoria and Albert Museum di Londra, insieme al “Servizio da caffè”, altro multiplo d’arte di una semplicità disarmante: vassoio con allloggi, tazzine, zuccheriera interamente realizzati in trafila.
Del 1968, invece, una ulteriore semplice “complicazione” del panetto di argilla estruso, porta alle “Canoe”. Queste, a differenza dei vasi, ancora sospesi tra funzione e concetto, aumentano il grado di funzionalità offerto dalla trafilatura, comunque, affidando la propria realizzazione ad una minima serie di gesti talmente semplici ed immediati da far gridare al miracolo. Il materiale estruso attraverso una flangia a disegno semi-elittico, forato, viene prima piegato subito a 90°, poi, un tratto rettilineo per una lunghezza pari alla funzione da realizzare, quindi, prima di tagliare il volume estruso, una seconda curvatura repentina. Il risultato immediato è quello di un tubo con le due estremità ruotate di 90° verso l’alto. A questo punto, posizionando ai due lati del manufatto una coppia di distanziatori in legno, dell’altezza leggermente inferiore alla sommità del volume rettilineo, si fa scorrere su di esse (che acquistano funzione di piano di sezione) il “filo da taglio” che. con un segno netto, solleva e separa la sezione superiore. Risultato: una canoa, un recipiente, della lunghezza voluta, da usare quale contenitore, piatto da portata, vassoio. Tempi di produzione: 5 minuti al massimo, e come dice il maestro: ” più semplice di così?”
Il video:
Una firma nel laboratorio di Tasca