20 Mar Artigianato diventa arte
(dal quotidiano Ottopagine del 21/03/2011)
La nostalgia è quel sogno che ferma le speranze, arresta le passioni e congela tutto il mondo in un interminabile attimo di ricordi. Un po’ a tutti piace farsi travolgere da questa onda e compiacersi di un tempo che non potrà più tornare e riportare gli affetti mancati, le gioie dimenticate e le immagini care. Pur di lasciare che la nostalgia lenisca i dolori, rincorriamo il già visto, il conosciuto, le immagini sicure, certi di trovare in loro quella tranquillità e sicurezza che possa riservarci dal fuoco degli inferni futuri. Siamo convinti di vivere un mondo nuovo fatto di realtà nuove e futuribili. Invece il secolo che è passato rimarrà nella storia come il tempo in cui gli uomini giocarono a ricostruire castelli perduti, nella speranza di poter ritrovare una castellana per cui non hanno combattuto quando era possibile. Un secolo in cui il futuro è stato una necessità, il tempo nuovo che arriva, un ospite che non si può fare a meno di invitare. Anche la nostalgia si costruisce: ha bisogno di un progetto e di strumenti adatti a tirare su il castello dei ricordi inutili. Uno dei tanti strumenti che abbiamo lasciato in naftalina il tempo necessario a mummificare la propria immagine, impregnarsi di vecchio e odorare di superfluo, è l’Artigianato. Sono anni ormai che, come una vecchia casa di campagna usata nei fine settimana, serve per rinnovare le risorse di aria tranquilla, prima di tuffarci nel mondo del reale. E’ stato, e continua ad essere, oggetto dello stesso interesse, delle stesse cure riservate ad un souvenir, magari un po’ kitsch, alquanto inutile, ma “molto pittoresco”.
Relegato quindi in questo ambito, cullato dalle politiche della conservazione di facciata, l’artigianato, che per secoli, invece si era evoluto, trasformato seguendo le sollecitazione esterne dell’arte, della cultura e della funzione, è stato tenuto lontano dalla ricerca, dal mercato, diventando testimonianza di tempi andati ed incapace immagine di potenzialità future. Si continua a volerlo considerare una risorsa da rilanciare, pur continuando a coccolare solo la sua immagine romantica e stereotipata, non più vera. Infatti, mentre le cure della cultura ufficiale preservano gli aspetti folclorici, la produzione industriale ha approfittato delle sue debolezze ed ha riempito le nostre case di finto artigianato, finte nostalgie, finta qualità carpendo con immagini da arte povera, la residua fiducia nella capacità manuale dei nostri territori.
Il gusto dell’invecchiare sta anche nel minore imbarazzo ad autocitarsi. Infatti, quelle appena lette, sono parole antiche di almeno quindici anni, quando con la “bottega delle MANI” si decise di dar corpo al tentativo di contaminazione, anche in Irpinia, in Campania, del “fatto a mano” con il Design. A quei tempi, non si viveva un artigianato artistico particolarmente emozionante. Quasi tutte erano realtà marginali, molte anche nelle potenzialità produttività, tutte nella consapevolezza delle comunità che le vivevano. Da designer provammo a rivedere non solo le forme, ma anche il senso stesso delle produzioni artigiane di qualità, operando con la cultura, cercando di diffondere mercato. Al tempo in cui riscrivo queste parole, debbo dire che non molto è variato se non nelle sovrastrutture. La maiolica arianese è rientrata nel novero delle “Città della ceramica”, ma il suo mercato di riferimento è ancora quello delle riproduzioni di modelli museali. Il comparto della pietra, da Fontanarosa, a Melito, a S.Andrea di Conza, ha vissuto un forte rilancio, ma solo grazie a singole iniziative, di singoli. La prova è vedere il lungomare di Pozzuoli, il borgo antico di Pietrelcina ri-pavimentati e arredati con breccia irpina, mentre il corso di Avellino con pietra lavica sintetica. Calitri si barcamena tra un liceo artistico che studia cose ed un territorio che inizia a dismetterle. Ma, soprattutto, è la non contaminazione culturale tra i soggetti potenzialmente attori di una sana impresa, l’assenza che pesa di più. Il mercato stagna. La causa non è il mancato rinnovamento dell’offerta in generale. Questo accade, nelle forme e non nella sostanza, ma accade. Il freno per tutte le produzioni di qualità, meridionali in generale ed irpine nello specifico, è la mancanza di interazione vera tra gli attori di uno stesso processo. Questi continuano, a scambiarsi mutui attestati di stima, ma di fatto continuano ad operare convinti di poter ritrovare all’interno della bottega o nel chiuso di uno studio, nella pubblicazione di una tesi o di una delibera, tutte le verità necessarie ad analizzare, pensare, produrre, promuovere e vendere un prodotto. Anche se di qualità. L’incomprensione di un artigiano, per un designer che parla di “diritti d’autore” o per un promoter che discute di “royalty,” è almeno pari alla difficoltà di un architetto a capire che una forma non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche che devono realizzarla e che mai potrà essere trasferita da un materiale all’altro, o alla convinzione di un assessore nel confondere artigianato con hobby e storia con scenografia. Tutti, ancora, continuano ad operare insieme ma isolati, dissociati. Troppi designer immaginano forme. Troppi esperti ipotizzano mercati. Troppi politici organizzano sagre. Troppi artigiani producono cose. Tutti convinti che Facebook sia il marketing ed “Amici di Maria” il design.