Il maiolicato di Capriglia

Il maiolicato di Capriglia

di Mario Pagliaro

dal quotidiano Ottopagine del 8/05/2011

Nella piccola chiesa di San Felice da Cantalice, a Capriglia, c’è un maiolicato. A dispetto di tanti e riconoscenza di pochi, non è una parodia di quelli antichi, ma un prodotto contemporaneo della collaborazione tra un architetto, Luca Battista e due ceramisti, Nello Valentino e Aniello Rega. L’uso della maiolica, nell’architettura storica in Irpinia, non è cosa comune, soprattutto, non autoctona. San Francesco a Folloni a Montella e S. Maria delle Grazie a Cassano Irpino, non sono opera dei “ruagnari” arianesi o calitrani. Quanto di ceramica “architettonica” esiste in Irpinia, lo si deve maggiormente all’anima migrante dei maiolicari vietresi e napoletani, ed alla loro necessità di ricercare mercati, meno saturi e fiscalmente assistiti, dove fosse redditizio dare testimonianza della loro maestria. Essendo frutto di esperienza artigiana più che di intenzione artistica, quindi, i tanti pavimenti maiolicati che ancora possiamo ammirare, difficilmente trovano valore nel singolo pezzo, nel disegno di dettaglio. Il loro respiro, infatti, era più attento a partecipare all’invaso spaziale in cui erano calati, ricercando maggiormente la resa ottica d’insieme, più che il racconto del dettaglio.

 

Questo, il riferimento culturale del maiolicato di Capriglia. Un architetto non poteva cogliere la “tradizione ceramistica” nella ripetizione acritica di quelle giravolte stilistiche che, oramai, riempiono i bagni “padronali” di una borghesia arricchita e incolta. Il senso verso il quale è stato indirizzato lo sforzo dei due ceramisti, infatti, è stato quello di un percorso a ritroso, alla ricerca dell’essenza, non l’uso di frasi fatte con cui assemblare discorsi già ascoltati, ma la ripresa del senso dei fonemi dell’antico linguaggio della ceramica campana. Ogni singolo modulo del maiolicato di San Felice si compone di 13 distinti pezzi, prodotti con la tecnica della lastratura e successivo intaglio. I colori sono quelli di sempre, non della Tradizione, ma della “ragione”. Sono gli stessi importati dagli arabi, e che ancora caratterizzano la ceramica moderna in tante sue declinazioni meridionali, semplicemente perché ricavati dagli ossidi e minerali più facilmente ritrovabili in natura. Ad una base di bianco prodotta con caolino aggiunto a “fritte”, si è unito il verde ramina dell’ossido di rame, gli arancioni dell’ossido di ferro, il blu dell’ossido di cobalto e per il contorno, il classico nero brunito dell’ossido di manganese.

Come nella tradizione, la natura non è mai stata riprodotta “tal e quale”, ma interpretata “per via di levare”, alla ricerca dell’essenza del segno grafico da apporre sulla terracotta. La progettazione del maiolicato di Capriglia, quindi, ha percorso un meccanismo di sintesi e ri-elaborazione, arrivando ad individuare poche forme capaci, però, di costruire ricordo.

A differenza della prassi, del passato e del presente, a Capriglia, questa volta c’era un architetto, fini ceramisti ed una comunità che voleva costruire dignità trasmettibile nel tempo. In questo caso, quindi, la ceramica, l’artigianato, non potevano essere più considerati mestiere al servizio dell’immagine, ma occasione di costruzione della qualità. Ovvero di quei valori che porteranno nel tempo a venire, a ricordare questo momento di ri-creazione vissuto dalla piccola Chiesetta di San Felice da Cantalice.

Il risultato del maiolicato, quindi, non è la riproduzione inutilmente romantica di una mattonella decorata e posta al fianco di altre, ma una operazione artigiana molto più elaborata, di “pezzatura” e decorazione, finalizzata alla costruzione di dettagli che raccontino la tradizione, rappresentando un’alta capacità contemporanea di “fare artigianato”.

Il risultato, che questo approccio virtuoso all’artigianato ha prodotto, quindi, credo possa essere additato come esempio a ripetersi di un metodo progettuale, fatto non di delega superficiale all’artigiano, non di sterile abbandono al “già visto”, o di ignorante violenza delle regioni tecniche e tettoniche, ma di giusta compartecipazione tra cultura del progetto e cultura del fare, ri-unite nella creazione della “messa in scena di una funzione”.