05 Dic Il marchio della ceramica
tratto dal quotidiano Ottopagine del 4/12/2011
“Città della Ceramica” non è un titolo di cui fregiarsi con facilità. Come il DOC per i vini, o il DOP per i formaggi, anche per la ceramica, ottenere un marchio significa superare un esame. Calitri non è una “Città della Ceramica”. Chiese di poterlo diventare circa dieci anni fa, non le fu accordato. Ad Ariano Irpino, invece, si. Requisito principale, per entrare nel club delle argille di pregio, sono le antiche tradizioni comprovate. La possibilità, cioè, di poter retrodatare, quanto più è possibile la presenza di ceramisti attivi in uno specifico territorio. In Campania, in questa impresa, sono riuscite altre cinque città: Cava de Tirreni, Cerreto Sannita, Napoli, San Lorenzello e Vietri. In Italia, in totale sono trentacinque.
Un marchio di qualità è quella cosa che dovrebbe tradurre per tutti, il valore di un prodotto. Il Taurasi è buono, ma in Svezia non per forza possono saperlo. Così lo si marchia con la sigla DOC ed anche i “vichinghi” sapranno associare al vino irpino il concetto di qualità. E’ marketing, nient’altro. La creazione di canali attraverso i quali velocizzare la comunicazione. Da noi però, è anche altro: una sigla con cui giustificare finanziamenti pubblici. Per questo, le sigle della qualità troppo spesso, diventano targhette da apporre alle porte dei patronati. Al territorio, invece, rimane spesso ben poco, l’ansia di poterne godere o la preoccupazione di mummificare le ragioni che le hanno fatte ottenere. Il “marchio” funziona nell’enogastronomia. Diventa preoccupante per l’artigianato artistico. Analizzando le aree artigiane che godono di “marchi di qualità”, ci si accorge che troppo spesso, coincidono con quei territori in cui l’artigianato artistico è minima materia per turisti, più che realtà produttiva in stato di avanzamento. Una passeggiata da Deruta a Caltagirone, mostra come, in quei centri in cui la ceramica italiana è nata, la sua immagine è più legata a stereotipi del souvenir di basso costo o del pezzo importante di falso valore, che a reali fermenti di mestiere. In una parola, tutto si è fermato a sottolineare più le presunte artisticità che non le reali funzioni. La conseguenza: mercati stagnanti.
Tra le “Sei sorelle” della ceramica campana, oggi, l’unica anomalia positiva è quella di Cava de Tirreni. Unico territorio in cui alla ceramica è legato un mix di botteghe, industrie, indotto e servizi. Il resto, ci racconta di una Napoli inesistente, di cui si narrano addirittura infiltrazioni cinesi, una Vietri che si sforza di apparire quella delle invasioni turche, più che quella reinventata dai tedeschi negli anni ’20. Cerreto e San Lorenzello, centri di un territorio interno, conducono onestamente la loro tradizione sapendosi anche proporre come servizio ai decoratori di altre tradizioni.
In Irpinia, la creta arianese, inizia con il volume di Guido Donatone e si conclude nello stupendo Museo della Ceramica. Fuori da questo, Ariano non si dimostra né terra per turisti né luogo di mestieri. Da quando il Tricolle è rientrato nel novero delle “Città della Ceramica”, il numero di ceramisti è passato da quattro a otto, ma solo perché, di questi, uno è diventato “trino”. Per il resto, lo sforzo è rimasto quello di tirarsi una coperta troppo corta fatta da un mercato provinciale a cui è stato fatto credere di dover trovare, nelle botteghe, quello che non può prendere dal Museo. Così, anche chi vorrebbe, come Flavio Grasso, deve limitare le interpretazioni, pur di non deviare da un mercato che si propone solo, come il più probabile.
A Calitri, c’era molto fermento ai tempi in cui si aspettava l’ambito riconoscimento. Botteghe che nascevano, ceramisti che si organizzavano, antiche collezioni e singoli pezzi che si riunivano. Con il fallimento degli storici e della politica, che trasformarono una storia vera in leggenda, determinando il “gran rifiuto”, tutto si è dileguato. Tranne la sostanza. A differenza dei centri dell’artigianato istituzionalizzato, a Calitri i ceramisti hanno continuato ad immaginare ceramica. Magari fuori dalle “partite IVA”, diventando il segreto di aziende più famose, alternandosi tra la passione, l’arte ed un secondo mestiere. Soprattutto, a differenza di quello che succede ad Ariano o in altri posti col senso distorto dell’economia, a Calitri i ceramisti collaborano, condividono le conoscenze, i tentativi. Le poche aziende rimaste prestano esperienza, spazi e strumenti. Eppure, non siamo in una “Città della Ceramica”. A Marco Senatore, delegato all’A.I.C.C. del Comune di Cava, fu spiegato questo, quando intervenne al convegno di settembre, organizzato dalla “bottega delle MANI”. Fu indicato un territorio che non era stato bravo a raccontare la sua storia, ma che da secoli la viveva con la ceramica e le argille, e da cinquant’anni con il suo Liceo Artistico. E deve essere stata una spiegazione efficace, se la scorsa settimana, Calitri è stata chiamata, da esterna, a compartecipare con le “Sei sorelle” campane dell’A.I.C.C., alla creazione di nuove sinergie ed azioni nel campo della ceramica. Una scelta non facile, perché aggiungere un posto ad un tavolo, a cui siede anche chi crede che i marchi servano a difendersi dagli altri e non a proporre se stessi, è il raggiungimento di un risultato. Per Calitri, sicuramente un’opportunità, non per attaccare una nuova targa fuori la porta ma per ritrovare le ragioni di rendere evidente, dichiarata, quella attività ceramistica che concretamente vive, e soprattutto forma e formerà con la sua scuola. Finalmente non più per artisti ma per designer. Chissà, questo potrebbe essere uno strumento in più anche per Ariano. Troppo fuori dalle logiche della ricerca, potrebbe trovare in Calitri un partner ancora in possesso di quell’entusiasmo che sul Tricolle non si sente più. Il primo passo vero lo hanno fatto entrambi. Nell’accordo scritto tra le “sei sorelle + uno”, hanno decisamente trovato dignità le parole “ceramica contemporanea”, grazie alla volontà di Calitri ed Ariano.