Nove volti tra Durazzano e il Bosforo

Nove volti tra Durazzano e il Bosforo

di Enza Iadevaia*

Dalla parte alta di Costantinopoli, percorro Etiler, varie volte a settimana, per raggiungere verso il basso, il Bosforo.
Lungo la strada, un negozio di cornici espone da tempo un paesaggio campestre: degli alberi in fila su un terreno che sembra arato da poco. I colori divisi tra giallo ocra e marroncino fanno pensare ad un autunno prossimo. Non so distinguere il resto. Ma c’è qualcosa, un punctum, che attira la mia attenzione. In lontananza, sfumati, un viale ed una baracca.
D’un tratto sono nella mia heimat. Ri-torno al lungo viale di casa, ai vicoli e alla piazza dove sono cresciuta. Ritorno a quei volti – nuovi, stanchi, vecchi, segnati dal tempo – che in qualche modo hanno lasciato un segno nel mio immaginario.

Dei nove volti della memoria, raccontati nel 2010, alcuni hanno chiuso le loro porte per sempre. Finisce così che ogni volta che ri-torno, la conta si snellisce. Il paesaggio della memoria ha però il sopravvento su quello reale. E da quel paesaggio, così come in quel quadro che tutte le volte osservo, quei volti non sono in realtà mai usciti.

Come cartoline. Sbiadite, consumate dal tempo, quelle facce racconteranno sempre qualcosa. E ognuno, lontano o vicino ne troverà a proprio modo un punctum, una “ferita”, qualcosa che suscita ricordi o emozioni. E quello, come afferma Roland Barthes, sarà “il momento in cui l’immagine mi guarda e agisce sulla mia memoria, agisce su di me”.

Di quelle cartoline dai volti pieni di storie, c’è quella di Zì Lucia, allora la più anziana del paese. Nata nel 1910. Aveva compiuto 100 anni. Occhi sopravvissuti a due guerre, terremoti e carestie. In lei viveva l’intera storia di Durazzano. Storia che si ripeteva nei suoi racconti, nei suoi ricordi offuscati. Attraverso di lei prendevano vita cose e storie che noi più giovani non avevamo visto né conosciuto: il ponte spezzato durante la guerra, il “vallone” di quella che oggi è chiamata “Via delle Ciliegie”, o il lavatoio “rò ponte e Taglione”.

C’è poi la cartolina degli Italo-Americani, dei migranti, di quelli che “quante miglia ha fatto ‘o bastimento, song già tante che nisciun e conta. E n’arpeggio doce porta o viento. E’ na canzone mentre a luna sponta”.
Zi’ PietroZi’ Laurienz e zì Pasquale, sono i volti di un paesaggio migrante. Storie miste di lontana miseria, difficoltà, lotta e successo. Andati via e poi ritornati “o’ paes”, perché secondo un detto comune, “a Merica nun è fatt p’a’ vecchiaia”.

Di quelle cartoline resta solo un immaginario vasto di racconti e aneddoti tramandati. I loro usci sono chiusi da anni, come il vecchio portone di zì Pietro, con accanto la storica fontana, anche lei ormai disseccata e rinchiusa nel tempo e nella memoria.
Ci sono poi le cartoline ancora non ingiallite, di cui è possibile sentire le voci, i racconti e le storie…
Il gioco dell’infanzia, quel “campanì e campanò” raccontato da zi’ Vicenza e che noi da piccoli chiamavamo solo “a’ campana”, modo accorciato e semplificato, di qualcosa che ci avevano tramandato nonne e zie.
Zì Bettina con la sua ginestra e il giunco, e l’odore di quel formaggio che ormai non prepara più. Le sue erano storie bucoliche per chi ascoltava, dure per chi le aveva vissute.
Nei vicoli di terra Murata c’è ancora zi’ Francesca, con i suoi aneddoti di canzoni solitarie e di fisarmoniche ormai lontane.
E ancora, le storie, vere o immaginate, dei mille vestiti cuciti da Giannina ‘a sarta. Stoffe di ricordi e di antichi presagi.

Ma ci saranno poi nuove cartoline dal mondo, da luoghi lontani, da paesaggi ignoti, sognati, voluti, forse immaginati. Cartoline sulle quali si scriverà che un tempo, non tanto lontano, quel paesaggio finito in un quadro, apparteneva un po’ forse anche a noi.

(* ) Teaching Assistant PhD candidate Florida Atlantic University