10 Ago Aree interne : fabbriche di nostalgia
di Giulio D’Andrea (*)
“Esistono più strade per l’avvicinamento al Festival di Paesaggio che terremo a Sant’Andrea di Conza a settembre. Una di questa attraversa il concetto di cambiare, i paesi e i cambiamenti. Perché è chiaro a tutti che lo stato attuale dell’arte non possa far scattare la scintilla per nuove economie e futuri visitatori ammaliati. Ma è altrettanto vero che la parola cambiamento non coincide necessariamente con rivoluzione o choc benefico”. Così Mario Pagliaro lancia il festival dal 6 all’8 settembre in Alta Irpinia.
Architetto, non sarà l’ennesimo momento di analisi sul paesaggio e poi arrivederci alla prossima estate?
Ma direi proprio di no e ce la metteremo tutta per fornire delle indicazioni. Però è comunque un evento di studio. Con il professor Ugo Morelli, tra gli altri. E grazie alla disponibilità del sindaco Pompeo D’Angola. Con momenti di teatro grazie a Salvatore Mazza.
Paesaggio deturpato oggi? Paesaggio minacciato? Paesaggio da contemplare?
Il paesaggio irpino negli ultimi quaranta anni è stato ridisegnato, irreversibilmente, dalle economie di vantaggio o dalle rendite di posizione. Pensiamo alla 219/81, ai 119 insediamenti produttivi vuoti, al sovradimensionamento dei piani urbanistici comunali. Oggi ci si prova con le Zone Economiche Speciali. Ma spostare la competizione dalla creazione di un prodotto organico al territorio allo sfruttamento di opportunità fiscali, nel medio termine crea condizioni di disinvestimento del capitale e delle attività produttive. Produce effetti negativi. Proprio quelli che denunciamo oggi.
Questo è un aspetto da post-terremoto e da post-crisi. Ma sarà centrale nel festival?
Quando si parla di paesaggio si parla di molte cose. Oggi vediamo un desiderio di cambiamento generalizzato, anche nel paesaggio. Ma cambiare non coincide per forza con crescere. Sicuramente non con industrializzare, urbanizzare, cementificare. Ma nemmeno con l’innamoramento per l’antico. Anche perché, sinceramente, non ci converrebbe. Nei nostri paesi non si è mai vissuto bene come oggi. Storicamente la depressione, l’isolamento, la povertà che si lamentano oggi sono infinitesimali a quelle vissute negli anni passati. Semplicemente, c’era più gente a condividerle. Nulla di più. Per cambiare si deve intendere ri-funzionalizzare. Creare nuove funzioni che siano compatibili con l’esistente ma anche con trasparenti prospettive di mercato.
La seguo e non la seguo, faccia un esempio.
Il turismo. Ecco, parliamo di turismo. E’ solo una economia di servizio, ma sono le economie di produzione quelle che potrebbero disegnare il Paesaggio in cui vorremmo vivere bene. Eppure, mentre in Valtellina si dismettono impianti sciistici perché non giustificano più gli investimenti, sul Laceno si progettano 22 milioni di seggiovie.
E sarebbe un male?
No ma i paesi, quelli che possono, dovrebbero poter vivere di altro. Il problema è capire di cosa. Di sicuro vedo tanta retorica, come quella sugli antichi mestieri che a mio avviso rappresentano una banale fabbrica di nostalgia. In troppe occasioni viene lasciato credere che la pasta di sala della casalinga irrealizzata, il vetro dipinto dell’hobbista o il ciocco di legno scolpito dal bricoleur in pensione sia artigianato. Esiste una generale approssimazione nel comprendere quelle aziende piccole e medie che tutto l’anno, tra silenzi e mille difficoltà, ricercano, costruiscono e vendono le proprie produzioni giocandosi quotidianamente la propria credibilità. Quelle che ogni mattina, se non hanno la certezza di poter guadagnare almeno trecento euro, già sanno che solo alzare la serranda sarà una perdita.
Cosa fare?
Cosa fare? A questa e ad altre domande proveremo a rispondere in quei giorni, proveremo a disegnare una traccia, per non trovarci, nel 2020, a parlare ancora di paesaggi e bellezza come soddisfazione per l’anima dalla durata di un tramonto.