L’eroismo di un cross

L’eroismo di un cross

di Mario Pagliaro*

Non c’è nulla di eroico nel continuare, sia chiaro! Perché non ci sarebbe nulla di male nel fermarsi. Ma l’immaginazione, quando e dove esiste, ha una sua inerzia. Un suo moto perpetuo che mette continuamente in riga le cose da fare, anche se la pigrizia vorrebbe affezionarsi ad una propria idea di pandemia e la Regione ti dice che, anche stavolta, non meriti contributi.

Nasce, comunque, anche la quinta edizione della Scuola sul Paesaggio/Festival di Paesaggio, nasce sulla necessità di affiancare all’estetica della decadenza, alle abitudini sulle “aree interne”, al monumentalismo dei localismi, alla noia del radicalismo chic, al colesterolo delle sagre, un’alternativa di pragmatismo che ri-guardi le cose in cui viviamo e suggerisca l’idea che il Paesaggio sia nostro, perché noi lo modifichiamo, fortunatamente e noi lo degradiamo, maledizione.

Quando scali una montagna, anche  la più alta, puoi ammirare panorami. Solitamente da più lontano lo guardi e più bello sembra il mondo.  Il Paesaggio, invece, lo scopri quando cammini rasoterra, ci cammini dentro e ne annusi odori, lievi e fetidi. Gioisci con i protagonisti e ne interrompi le bestemmie e più che di bellezza, vera o presunta, discuti di vivibilità.
La prima tutti credono di poterla riconoscere, la seconda pochi sanno di non viverla. Quando guardi il mondo dal margine, è questa la necessità di cui senti l’impellenza. Una necessità che si scambia per lavoro, servizi, turismo, ospedali, strade nuove, treni veloci, invece, più semplicemente, coincide con “la condizione di vita consentita dal luogo e dall’ambiente“, quindi, con la capacità che ognuno di noi esprime di saper far vivere bene l’altro.

Lo scorso anno, abbiamo voluto focalizzare il tema delle “Aree interne”, con il senno di poi confesserei di aver sbagliato obiettivo. Di non aver puntato alla testa, solo al cuore. Durante il lock-down, poi, con Ugo Morelli è stato naturale individuare “il margine”, quale tema della nuova riflessione. Ripensandoci era di questo che volevamo parlare (e inconsciamente lo abbiamo fatto) anche lo scorso anno.

Le “aree interne” sono solo una grandezza politica, nata per estrarre una minuzia elettorale. E’ il “margine”, il luogo vero da studiare, quello delle idee e della vita. Tutto quello che si sposta al centro, nell’evidente, scoprirà la necessità di poter solo sopravvivere. E’ solo sul margine, che una idea può nascere e trasformarsi senza doversi mummificare per l’attenzione alla sommatoria di interessi vacui che la circondano. Allo stesso modo, gli uomini e le donne dei luoghi che altri definiscono “marginali”, sono loro che vivono. Gli altri vegetano, sicuri di esistere solo perché notiziabili.

Uno dei miei riferimenti di vita e di mestiere, Ugo La Pietra, vent’anni fa mi convinse, confessando con orgoglio: “mi occupo di cose marginali”. Dopo vent’anni spero mi rassicuri di non aver sbagliato nel sottrargli un motto capace di disegnare una vita ma, soprattutto, che siano maturi i tempi per lasciar comprendere il margine quale luogo dell’azione e non della resistenza.

D’altronde, i migliori goal si fanno crossando dalle fasce. Se al centro non restano in fuorigioco.

 

(curatore Scuola sul Paesaggio/Festival di Paesaggio)