21 Gen Occhi laici
Paesaggio è, innanzitutto, percezione.
Non semplicemente colline, panorami, case e chiese. Innanzitutto, bambini, donne, uomini, le loro macchine, trattori, bar, le birre ed i funerali. Per carità, anche le culle.
Di sicuro, la verità per cui Paesaggio debba essere una porzione bella di territorio, difficile da raggiungere, inquadrata in una cartolina, magari antica, non è vera.
Il pensiero che si dovrebbe associare alla parola Paesaggio, invece, siamo noi, con i nostri luoghi di vita, .
Detto questo, è difficile sposare quella fiducia diffusa per cui, l’Irpinia, sarebbe un “bel paesaggio”. E non è un giudizio di valore ma di merito.
Sono anni, che ci vivo e ci consumo impegno e non ho mai ben capito se la mia incapacità a non saper comprendere (prendere con me) tutte le sicurezze che questa terra comunica, attraverso la retorica di chi immagina di capirla, sia dovuta al fatto di essere troppo laico o non geneticamente irpino.
Mio padre è nato ad Ariano Irpino quand’era di Puglia, mia madre al confine tra Sannio e Terra di Lavoro, un mio nonno ha trovato la fortuna in America e la peritonite a casa sua, l’altro nemmeno l’ho conosciuto ma non credo che avesse mai benedetto la terra che lo ha, brevemente, ospitato.
Detto questo, propendo,comunque, per la prima colpa: servono occhi laici. Me ne convinco quando, sollecitato a commuovermi dinanzi alle bellezze di Napoli, riesco a definirla “al massimo interessante”.
Guardando laicamente, senza necessità di campanilismi e soprattutto senza tenerezze elettorali di dover dichiarare amore per le linea di confine in cui, per caso, siamo stati compresi, è difficile dire che abitiamo un paesaggio diverso da Scampia, Tor Bella Monaca o Quarto Oggiaro. Ammetto che nutro il gusto del paradosso ma non è questo il caso. La similitudine, se non nell’immagine, sta nel metodo. Sicuramente, nella percezione.
Quando si sale in bicicletta a Montevergine, si vorrebbe essere capaci di decollare oltre il degrado progettato nelle aree a contorno del Santuario, dopo aver scalato il Calvello, invece, fare in modo di dare le spalle alla vallata di Lioni e consolarsi con il Cervialto. Su questo, non salirci mai, per non rischiare di accorgersi del Laceno, convinti, che non è necessario soffrire.
Perché il Paesaggio, se non è cartolina ma insieme di luoghi di vita, analisi e non contemplazione, sa essere sofferenza. Ed in Irpinia si soffre.
Il Paesaggio irpino, anche visto con Google Earth, è un puzzle di contraddizioni, quasi tutte addebitabili alle scelte individuali degli ultimi quarant’anni. Individuali, perché lo sforzo costante di socializzare le perdite, privatizzando gli utili, ha portato ad un territorio disegnato in base alle priorità contingenti dei singoli e mai ad una visione dei bisogni collettivi a lungo termine.
Le cause si imputano, troppo frettolosamente, ed a seconda del pulpito, ad una sconfitta della politica, delle istituzioni, della scuola, dell’urbanistica, delle generazioni, continuando ad eludere la condanna in contumacia dell’unico imputato possibile: l’individuo.
Protagonista unico di quelle scelte quotidiane che hanno portato a vivere uno spazio collettivo che, sempre se analizzato con occhi “laici”, si evidenzia per frammentazione dei valori, compresenza di contraddizioni e approssimazione dei legami.
Quando la “Convenzione Europea sul Paesaggio”, insiste sul fatto che si debba considerare “ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”, richiama esattamente alla necessità di individuare, finalmente, nell’individuo l’artefice massimo del Paesaggio e responsabilizzarlo rispetto alle sue percezioni. Se si è convinti di vivere un Paesaggio “bello”, si avrà il dovere di tutelarlo, se, invece, lo si sente “brutto”, di crearsi il problema e risolverlo.
Al contrario, in Irpinia (ma non solo), il Paesaggio vissuto è il risultato di strategie che viaggiano su due binari divergenti e, soprattutto, obbligati a velocità diverse. Sul primo viaggia la “visione”, con le analisi delle cose che sarebbe meglio fare. Sull’altro, viaggiano “le cose importanti”. Quelle che esigono parvenza di risposte evidenti e immediate: produttività, occupazione, sviluppo.
Questo convoglio strabico, parte dalla stessa stazione e consegue risultati distanti. Soprattutto, il treno dell’importanza viaggia sempre più veloce di quello della visione, limitandolo con il “già fatto” e trasformando le analisi in “buone intenzioni”, lastricando vie infernali fatte con la retorica delle parole che danno sicurezza: bellezza, tradizione, storia, ambiente, eccellenze. Riuscendo. al massimo, a costruire “nostalgia”.
La nostalgia è quel sogno che ferma le speranze, arresta le passioni e congela tutto il mondo in un interminabile attimo di ricordi. Un po’ a tutti piace farsi travolgere da questa onda e compiacersi di un tempo che non potrà più tornare e riportare gli affetti mancati, le gioie dimenticate e le immagini care. Pur di lasciare che la nostalgia lenisca i dolori, si rincorre il già visto, il conosciuto, le immagini sicure, certi di trovare in loro quella tranquillità e sicurezza che possa riservarci dal fuoco degli inferni futuri.
Siamo convinti di vivere un mondo nuovo, fatto di realtà futuribili, invece, rimarremo nella storia come gli uomini che giocarono a ricostruire castelli perduti, nella speranza di poter ritrovare una castellana per cui non hanno combattuto quando era possibile.
Anche la nostalgia si costruisce: ha bisogno di un progetto e di strumenti adatti a tirare su il castello dei ricordi inutili. Uno dei tanti strumenti che abbiamo lasciato in naftalina il tempo necessario a mummificare la propria immagine, impregnarsi di vecchio e odorare di superfluo, è proprio il Paesaggio.
Come una vecchia casa di campagna usata nei fine settimana, serve per rinnovare le risorse di aria tranquilla, prima di tuffarsi nel mondo del reale. E’ stato, e continua ad essere, oggetto dello stesso interesse, delle stesse cure riservate ad un souvenir, magari un po’ kitsch, alquanto inutile, ma “molto pittoresco“.
Relegato in questo ambito, cullato dalle politiche della conservazione di facciata, il Paesaggio che per secoli si era trasformato seguendo, organicamente, le sollecitazione della necessità reali e non adattandosi a quelle supposte o contingenti, si continua a volerlo considerare una risorsa da rilanciare, pur coccolando solo la sua immagine stereotipata, non più vera.
Eppure, solo pochi giorni dopo il sisma dell’80, Leonardo Sciascia ricordava che il mondo era cambiato già da prima della scossa.
“I paesi presepi: una delle espressioni più retoriche e mistificanti che siano venute fuori su questa grande tragedia del terremoto. Chi la legge o la sente non sa precisamente cosa vuol dire, ma intravvede l’idillio, la serenità, la semplicità, la sicurezza dei rapporti umani, la genuinità delle cose altro che degli uomini, il silenzio. Suggestionati dal fatto che la catastrofe è giunta improvvisa a cancellare tutto, si è quasi portati a credere che abbia cancellato quel particolare tipo di vita: la vita da presepe nei paesi-presepi. Ma basta un momento di distacco, di riflessione, per prendere coscienza che quel tipo di vita già da un pezzo era stato cancellato. Quelli che ora si chiamano paesi-presepi già rigurgitavano di automobili, di televisori, di elettrodomestici, di abusi e di scempi edilizi, di frigoriferi, di prodotti industriali, di pane fatto con improbabile farina e di formaggi fatti con probabili veleni. Come ogni altro paese italiano, grosso, piccolo o minimo. E – si capisce – di corruzione: come le grandi città, le regioni e l’intero paese.
Ma questa espressione non è per commozione o impeto retorico che galleggia nei titoli dei giornali o vien fuori dolente dalle voci dei cronisti e commentatori radiotelevisivi. Nasconde un’intenzione, una volontà di far sì che tutti, e specialmente i sopravvissuti, si abbarbichino all’idea di ricostruire i presepi, li promuovino, la propugnino. I paesi-presepi votano, i paesi-presepi sono collegi elettorali; da mantenere così come sono, reticoli clientelari tra i più sicuri. Per tale intenzione, per tale volontà, l’esodo viene, a quanto pare, scoraggiato: un esodo che si rende, almeno provvisoriamente, necessario. A meno che non si voglia aggiungere al disastro una serie di casi disastrosi.
I paesi vanno ricostruiti, ma non come presepi. I presepi, esistevano quando si andava dal fornaio con un chilo di grano e se ne aveva in cambio un chilo di pane. Oggi un chilo di grano vale 150 lire e un chilo di pane 1000. E’ un piccolo enorme fatto da tener presente, quando si parla di paesi-presepi, terra, agricoltura, mondo contadino e cultura contadina.”[1]
Al contrario della raccomandazione di anticipare i processi per meglio governarne gli effetti, di saper guardare oltre l’abitudine, il Paesaggio irpino è rimasto da un lato vittima di banali processi speculativi senza alcuna relazione intelligente con l’insieme, giustificati solo da probabili ricadute positive nel breve termine, dall’altro protagonista di un grande museo della nostalgia virtuale in cui sforzarsi di conservare le immagini di come crediamo che i nostri luoghi siano stati.
L’isolamento delle aree rurali, lo spopolamento dei centri storici, addebitato all’assenza di occasioni lavorative per le nuove generazioni, ad esempio, muove dall’assoluta assenza di analisi della essenza di quei luoghi.
Le ragioni storiche della formazione di una comunità stanno nel bisogno primordiale di riunirsi per meglio affrontare le necessità umane, sociali e produttive. Nel momento in cui le variabili della storia rallentano la convenienza alla convivenza iniziano, inconsciamente, a venir meno anche le ragioni dell’esistenza della comunità stessa, intesa come aggregato d’uomini, azioni e dei luoghi che li accolgono.
Se questo è il processo che identifica i motivi del lento degrado che avvolge i centri storici della nostra terra, ad acuirne gli effetti, poi, intervengono le dissennate politiche di consumo del suolo. Con il fenomeno di inurbamento delle pianure a contorno dei centri storici, realizzato per venire incontro alle aspirazioni “metropolitane” coltivate da ogni piccolo comune, si è raggiunto il doppio danno di togliere valore immobiliare all’architettura storica, rendendo diseconomico intervenirci (perché restaurare una vecchia casa, se con la stessa cifra è possibile costruirne una nuova a valle?) e, in più, diminuire, frammentare quella superficie agricola che, invece, poteva produrre reddito e che oggi nei vari P.U.C., troppo spesso, è retinata come “area periferica”.
Contraddizioni autoctone, coltivate da approssimate aspettative individuali e attuate mediante semplici azioni e non-azioni, quotidiane.
Insistendo, quindi, nel voler considerare il Paesaggio come insieme complesso e non semplice visione romantica, quello che appare assente è la consapevolezza delle sue comunità. Elemento che emerge completamente quando si affronta il tema delle “aree interne”
La strategia governativa che le interessa le ha definite: “quelle aree significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali”[2], di fatto, identificandole, semplicemente, come geografie più o meno distanti da una metropoli e questa, il centro di gravità verso cui farle tendere fisicamente, con più o meno velocità.
Con conseguenze interamente negative sulla percezione e la consapevolezza di chi abita le aree interne.
Oggi, infatti, in virtù del dibattito avviato, il tema non è più portare le aree interne al centro dell’agenda della politica individuando risorse ma inserirle nella consapevolezza delle comunità, perché diventino loro stesse quelle risorse. Quanto si conosce dalle pagine dei giornali, sul tema, è un insieme di azioni pragmatiche, né giuste né sbagliate ma più vicine alla tattica che ad una strategia.
Fin quando le visioni per i quasi 4.200 comuni interni, resteranno appiattite sul quantitativo di fondi da spendere, sempre meno sulla riflessione del come spenderli e quasi nulla sull’analisi del perché realmente farlo, allo sdoganamento delle aree interne mancherà sempre un tassello fondamentale: l’accettazione delle proprie comunità di essere parte di una realtà viva, che contiene il 60% del territorio nazionale. Non la rassegnazione di essere una sfortunata porzione di mondo, lontana dalle opportunità vissute nell’altro 40% ed agire, per questo, sforzandosi di surrogare modelli che sembrano vincenti, adattandoli senza capirli alle proprie realtà. Da cui, poi, scapparne quando si deve ammettere che, anche questi tentativi, non hanno portato a nessun cambiamento positivo reale ma si è riusciti, solo, a consumare altro Paesaggio, ovvero, altro suolo, economia, acqua, aria, intelligenze, entusiasmi e pazienza. Tanta.
Oggi, il riconoscimento dei paesaggi interni quali luoghi vivi e potenziali a partire dai loro “limiti”, è più facile che avvenga da chi non li vive, che da chi ne è coinvolto. Questo, perché quello che si propone per i luoghi interni è ancora viziato dall’assenza di un cambio di prospettiva. Si continua a progettare dall’esterno verso l’interno e non al contrario. Oppure, quando succede, è perché l’interno vorrebbe sembrare “esterno”.
Si insiste nell’adattare modelli valoriali estranei (produttività, velocità, universalità…) a luoghi fondati su altri presupposti. Primo tra tutti: la convenienza alla convivenza e la relazione organica tra i luoghi e le sue conseguenze antropiche.
L’alternativa, ovviamente, non è progettare decrescite felici, insistere sul romanticismo dei piccoli paesi, la retorica delle identità o la ri-scoperta delle radici. La soluzione, può risiedere nella costruzione di comprensione (prendere con sé) dall’interno ed in questo, la ri-conoscenza del proprio Paesaggio è fondamentale.
Una necessità dimostrata anche dalla capacità dell’Irpinia, nonostante la sensibilità ambientale percepita, di risultare al quinto posto in Italia per i reati eco-ambientali commessi[3], prima in Campania per reati legati al ciclo del cemento e seconda per illegalità nel ciclo dei rifiuti.
L’Irpinia, in sintesi, si racconta un Paesaggio diverso da quello reale, denso di retorica e di chimere che dovrebbero rilanciarlo ma che, di fatto, sembrano solo consumarlo.
Quella della valorizzazione dei nostri piccoli centri attraverso il loro inserimento nell’economia turistica, ad esempio, domina da oltre un trentennio la generalità degli studi di fattibilità. Eppure, la continua disattesa delle previsioni, nonostante quanto realizzato ed i finanziamenti spesi, non ha ancora provocato una rielaborazione delle analisi e nemmeno degli strumenti, continuando ad imputare, in un territorio già enormemente urbanizzato, la mancanza di appeal turistico delle nostre contrade, alla presunta scarsità di infrastrutture.
Un’analisi obiettiva, invece, farebbe emergere quanto l’Irpinia, in generale, non possegga una potenzialità turistica, intesa nel paragone con località turistiche più affermate.
Pur essendo presenti singole emergenze artistiche, architettoniche, paesaggistiche, culturali e religiose di rilievo, queste sono disseminate in un territorio vasto quanto tutta la provincia e che si presenta, nel complesso, non qualificato.
Quello irpino, è un territorio che non partecipa con omogeneità ad accrescere il desiderio della sua completa fruizione da parte di chi non lo conosce.
Troppo spesso, si leggono facili accostamenti tra l’Irpinia e territori quali Scozia, Irlanda o Galles, partendo dal presupposto che il loro patrimonio storico – artistico sia fatto di elementi isolati e non di rilievo come quello delle emergenze irpine. Manca, però, la considerazione che, tra quei luoghi isolati, esiste una qualità del paesaggio, una spontanea possibilità di fruizioni naturalistiche, uno standard di offerte turistiche minime talmente elevate che annulla le pur esistenti criticità. Restituendo la percezione di un paesaggio coerente. Questo, in Irpinia, non può più succedere.
Gli elementi artistici, architettonici, naturalistici di oggettivo valore intrinseco, sono frammenti isolati in un territorio limitato, grandemente urbanizzato e dequalificato che non attira un turismo stanziale. Non sarà un caso che in Irpinia, dal 2008 al 2017, si sia registrato un calo degli arrivi del 24,7% e del 34,8% delle presenze di turisti, mentre la Campania è cresciuta del 25,9% e del 9,2%[4].
L’abitudine a lasciare che le parole siano il significante ed il significato delle progettualità, costruisce la netta separazione tra l’intenzione progettuale ed il risultato raggiunto.
Protagonista del glossario delle parole della sicurezza, ad esempio, c’è il termine “qualità”. Questo, da solo, non indica un valore assoluto e soprattutto, per forza positivo. Semplicemente, seguendo il suo etimo, indica “quale una cosa è”, il suo “modo di essere”. Se, poi, sia buono o cattivo, è tutta un’altra cosa.
Per i centri minori o per le aree naturali, il termine qualità, affiancandogli il verbo “facere”, si declina, troppo spesso, in “qualificare” o “riqualificare”, come fossero azioni virtuose a prescindere e non semplicemente la costruzione o ri-costruzione di “un modo di essere”.
Per tutto questo, quando si concorda che un luogo non ha o ha perso, i caratteri di “qualità”, non si è detto molto. Il conseguente assunto per cui “necessita un progetto di riqualificazione”, nemmeno indica cosa si vuole fare ma solo la neutra capacità o volontà di “fare qualcosa”.
Subordinare, questo attivismo alla pre-visione di un valore, possibilmente condivisibile, in Irpinia è utopia. Così, la “riqualificazione” dei Paesaggi, come fosse una ricetta sempre buona, il rimedio taumaturgico per mali non diagnosticati, si esaurisce in decontestualizzate operazioni di edilizia o di trasformazioni più o meno articolate. Mentre, per ricostruire il modo di essere di uno spazio, di un luogo, servirebbe progettare, concordare e condividere, innanzitutto, quale valore attribuirgli.
“Valorizzare“, creare o ricreare valori. Un’azione che non è puramente tecnicistica ma anche culturale, economica, sociale. Antropologica.
Il Paesaggio irpino con i suoi centri storici (soprattutto quelli definiti “minori”), le aree naturali, le città e le periferie, è avvolto da una sofferenza dovuta proprio alla diffusa perdita di valori. Sociali, immobiliari, produttivi, culturali.
Per intervenire sui luoghi, negli spazi, sul Paesaggio, serve rendersi consapevoli, innanzitutto, della necessità di chiarire il “già fatto, il “perché fare“ ed il ”come fare” e questa, forse, è la parte più importante. Anche nelle accese diatribe ambientaliste che, su fronti opposti ma trasversali, spesso infiammano le comunità che percepiscono un assalto alle loro integrità dichiarate, le parti si accendono per un “Si” o un “No”, mai sull’analisi dei legami complessi delle certezze locali con quelle sovra-territoriali.
Soprattutto, mai si ragiona che la via d’uscita potrebbe essere il “come”.
Così, nell’eterno immobilismo delle attese rivoluzioni, chi si commuove per la pala eolica nel proprio paese, tace sulle trivelle minacciate oltre le colline, dove si sorvola sul polo logistico, che non interessa a chi pensa all’impianto di smaltimento rifiuti. Tutti, insieme, però, tacciono sulla mediocrità diffusa, irreversibilmente e su tutto il territorio provinciale dalla 219/81. Di quella hanno goduto in troppi.
La difficoltà irpina, anche nel ri-comprendere il proprio Paesaggio, sembra proprio essere l’impossibilità di uscire dagli schemi a cui si è stati abituati. Di sostituire, le pubbliche dichiarazioni di fedeltà alla propria terra, con più concrete dimostrazioni di lealtà.
“La sicilitudine è il lamento che il siciliano fa di sé.”[5] raccontava Camilleri, la “irpinitudine” è l’esatto contrario: l’esaltazione emozionata di quanto sia più comodo percepire di se stessi.
Pregni di irpinitudine, si riesce a guardare il mondo intero per strati successivi. Tutti, però, subordinati a quello più vicino alle proprie certezze.
Bisognerebbe, ri-cominciare, forse iniziando a condannare la “gente” o almeno, ad aumentarne i sensi di colpa quando ammettono che, quello che hanno commissionato e realizzato, “non è proprio un bel paesaggio”. Non che sia fondamentale riconoscersi nella bellezza, se poi si vuole, ancora, scambiarla con la retorica e viverla come eccezione.
Il Paesaggio irpino, oggi, è uno storytelling che non coinvolge. Non è chiaro chi sia il protagonista della narrazione, la trama sembra lasciata al caso, i fatti narrati non contestualizzano né il tempo e nemmeno i luoghi in cui svolge. Soprattutto, nessuno racconta perché, questa storia viene narrata.
Alla fine, ci restano le immagini e anche quelle, per com-prehendere, servono occhi laici.
(*) tratto da – C. Bruno, U. Morelli, M. Pagliaro, G. Picone, Paesaggio Irpino – oltre la terra del rimorso, Grottaminarda, 2019 – PH F. Iadarola, M. Memoli
NOTE
[1] – Leonardo Sciascia, Quei presepi fanno comodo, “Il Mattino” – 4 dicembre 1980
[2] – “La Strategia Nazionale per le aree interne: definizione obiettivi, strumenti e governance”, Materiali UVAL n.31 Anno 2014.
[3] – Legambiente (a cura di), Ecomafia 2019. Le storie e i numeri della criminalità ambientale, edizioni Ambiente, 2019
[4] – Lorenzo Bellicini (a cura di) L’Irpinia nella competizione degli anni 2000: demografia, economia, territorio, C.R.E.S.M.E. Ricerche, 2019
[5] – Silvia Truzzi, Camilleri: Il giorno della Civetta “Leonardo Sciascia non avrebbe mai dovuto scriverlo”, “il Fatto quotidiano”, 20 novembre 2009