La cultura che si morde la coda

La cultura che si morde la coda

di Mario Pagliaro

 

La gestione della cultura nel dibattito politico è un cammeo di cui si esalta il valore simbolico per compensarne la marginalità nelle azioni amministrative.
Tranne esempi illuminati, la programmazione culturale non coincide mai con quella amministrativa. Già dai programmi elettorali si rivela un utile superfluo da sfoggiare alla fine di un comizio o una conferenza stampa e da affidare, poi, all’eletto più ingenuo, meno votato o ad un nome roboante ma quasi sempre fuori dal pragmatismo amministrativo.

Il risultato sono tanti dei nostri monumenti, musei, biblioteche, edifici storici e aree archeologiche che navigano a vista in una approssimazione diffusa fatta di annunci, comodati d’uso gratuito, gestioni paesane, attese di finanziamenti pubblici, sponsor occasionali e totale assenza di reali inserimenti in una filiera produttiva dei beni culturali.

In Italia, il 72% della intera rete museale appartiene agli enti locali (solo il il 20% ricade nella competenza statale), anche per questo, nei loro bilanci c’è un capitolo interamente dedicata alla “tutela e alla valorizzazione dei beni e delle attività culturali”, suddiviso in due sottocategorie: “valorizzazione dei beni di interesse storico” e “attività culturali e interventi diversi nel settore culturale”.

La città di Avellino, nel 2020, prevedeva per l’intero capitolo “Cultura” una spesa di € 7.510.121, di cui € 2.227.761 per azioni sui beni di interesse storico e € 5.282.360 per le iniziative culturali. A consuntivo, quanto effettivamente speso, invece, è stato un totale di € 1.534.933. Con € 207.729 per le azioni sul costruito storico (4 €/cittadino) e € 1.327.204 nelle attività culturali.

Analizzando i bilanci della città capoluogo negli ultimi dieci anni, il trend ė costante: si riesce a realizzare, al massimo, una media del 30% delle intenzioni culturali immaginate nei bilanci preventivi, impegnando una spesa media pari all’1,5% del totale delle uscite comunali.

Spese maggiori o minori, ovviamente, non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia ma, certamente, un andamento come quello avellinese evidenzia, oltre le congiunture, gli orientamenti politici e le volontà personali, quanto il capitolo “Cultura” resti, antropologicamente, una voce di bilancio residua, senza un ruolo strategico e, soprattutto, possibilità di avviare sviluppo. Una mental habit diffusa. Analizzando le spese culturali di molti paesi della provincia irpina, infatti, si ritrovano singoli casi in cui la spesa culturale pro-capite raggiunge cifre sorprendenti (Casalbore nel 2017 era sesto in Italia con 643,78 € per cittadino), ma sempre senza atteggiamenti amministrativi diversi, per cui la Cultura possa orientare le programmazioni delle comunità e non sia un semplice corredo di ipotetiche svolte turistiche o emozionanti serate estive.

In attesa che maturino coscienze diverse e si arrivi a riconoscere nella Cultura il fulcro delle scelte di governo delle comunità, non è necessario accontentarsi.

La valorizzazione dei beni culturali, anche per quanto previsto dal loro Codice, consiste nell’accrescimento del valore del bene, in senso economico e sociale. Gestione e valorizzazione sono inscindibilmente collegate, l’una presuppone l’altra. Se il bene è capace di produrre ricchezza, migliorerà la sua fruibilità e il suo valore sociale. Ma, per tutto questo, non sembrano bastare le nostre abitudini amministrative.

Fortunatamente, tanto la pratica delle comunità più avanzate, quanto la legislazione dello Stato, hanno creato nuovi strumenti, capaci di permettere la collaborazione tra le diverse amministrazioni pubbliche e con i privati (singoli o in forma associata), alla luce del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale previsto dall’art. 118 della Costituzione.

In ambito europeo e soprattutto nei paesi anglosassoni, sono ampiamente in uso diverse forme di partenariato pubblico-privato. Cooperazione tra le autorità pubbliche e il mondo delle imprese per il finanziamento, il restauro, la gestione o la manutenzione del patrimonio culturale. Strumenti funzionali a bypassare la mancanza di fondi, di adeguate competenze da parte delle pubbliche amministrazioni e anche riunire i tanti interessi coinvolti.

Attraverso il partenariato pubblico-privato, l’ente locale cessa di essere il soggetto unico che programma e pone in essere gli interventi pubblici e diventa, invece, il soggetto che garantisce il rispetto delle regole e l’interesse della collettività, controllando l’attuazione e la gestione delle attività scaturite dalla cooperazione.

Tra gli strumenti maturati in Italia negli ultimi anni (è nato nel 1996), la “Fondazione di Partecipazione” è sicuramente quello che meglio sintetizza le diverse necessità. Tra i più adatti a consentire ad un ente locale di perseguire uno scopo di pubblica utilità, usufruendo dell’apporto virtuoso dei privati.

Questa, sembrerebbe la soluzione adottata dal Comune di Avellino con la sua “Fondazione Avellino Cultura” e anche quella auspicata da diverse associazioni cittadine in tante loro analisi. Sarebbe il superamento delle contraddizioni che hanno impedito, nel tempo, di costruire strumenti e contenuti culturali nel capoluogo.
Condizionale obbligato, perché analizzando nello specifico le rispettive posizioni, quanto realizzato e quanto auspicato, rappresenta altro.

Tra le tante contraddizioni (già analizzate da Orticalab) la principale è nella unicità del soggetto costituente e finanziatore. Le FdP, già nella costituzione, prevedono una molteplicità di soggetti mutuamente coinvolti nella gestione (e quindi, valorizzazione) di beni o iniziative culturali. E’ questo l’obbiettivo per cui si affianca ai “classici” assessorati uno strumento più elastico e partecipativo. La fondazione avellinese, invece, nasce con un unico fondatore e soprattutto, con un unico finanziatore: sempre il Comune. Dove sarebbe l’azionariato partecipato?

Nella FdP l’aspetto patrimoniale è essenziale. L’ente sorge solo se sussiste un “fondo patrimoniale” intangibile ed uno “di gestione”, entrambi costituiti dai contributi dei soci al momento della costituzione oppure successivamente, nel caso della auspicabile aggiunta di nuovi soci. Questa dovrà avvenire sempre con un unico obbiettivo: aumentare le disponibilità finanziarie della Fondazione nella gestione e valorizzazione delle iniziative culturali previste dal suo statuto.
Anche il Consiglio di Amministrazione dell’ente esiste per riunire i rappresentanti dei soci finanziatori. Questi, sempre subordinati alle visioni deliberate dell’ente pubblico promotore, restano gli unici in grado di partecipare e porre in essere una programmazione.

Il compiacimento di attorniarsi di soggetti mediatici, di volersi sentire partecipi alla vita culturale della comunità o realizzare proprie ambizioni sono altri temi che si risolvono con le consulenze o con i soci sostenitori.

L’iniziativa del capoluogo, in effetti, è solo un sequel di quanto già messo in scena, nel 2017, dall’Amministrazione Provinciale con “Sistema Irpinia”. Almeno, in quel caso, nella costituzione furono coinvolti più soggetti, privati ed istituzionali, ma venne lasciata sempre ad un solo socio fondatore l’onere di creare il fondo per il funzionamento dell’ente: alla Provincia.
Si potrebbe dire che in Irpinia si confonde la “partecipazione” con il “coinvolgimento”.

Un equivoco, si deve dire, che accomuna sia le amministrazioni quanto le diverse associazioni. D’altronde, come un cane che si morde la coda, lo stato dell’arte è sempre dovuto, in parti uguali, tanto agli eletti quanto agli elettori.
La differenza tra “fondazione” e “associazione” sta nell’elemento centrale intorno a cui si formano. Per la prima è il patrimonio, per la seconda, invece, la componente umana. La prima, nasce per risolvere tecnicamente difficoltà create da conflitti di competenze istituzionali, carenze di fondi, di know-how e programmazione. La seconda, può anche non nascere. Soprattutto se le prospettive di azione si legano al “comodato d’uso gratuito”, alla intercettazione di fondi pubblici o alla retorica.